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Inquinamento atmosferico e coronavirus, la simbiosi perfetta

“Con questo studio dimostriamo che le gli abitanti di aree ad alto tasso di inquinamento sono più soggette a sviluppare condizioni respiratorie croniche favorevoli agli agenti infettivi. Inoltre, una prolungata esposizione all’inquinamento atmosferico conduce a uno stimolo infiammatorio, perfino nei soggetti giovani e sani. Concludiamo che l’alto livello di inquinamento nel Nord Italia dovrebbe essere considerato un fattore addizionale nell’alto livello di letalità riscontrato in quell’area”.

Comincia così l’articolo “Può l’inquinamento atmosferico essere considerato un co-fattore nel livello estremamente elevato di letalità del SARS-CoV-2 nel nord Italia?”, firmato dai ricercatori Edoardo Conticini, Bruno Frediani e Dario Caro, pubblicato il 24 marzo sulla rivista scientifica Environmental Pollution. La pandemia da Covid-19 ha stimolato la produzione di articoli accademici, interessati ad analizzare i diversi aspetti di un fenomeno totale, esteso su ogni declinazione del vivere. Scosse dalla necessità dell’emergenza, le diverse discipline rincorrono un nemico rapido ed evasivo, si affidano alla letteratura nel tentativo di trovare nelle similitudini con il passato i puntelli della scienza nuova.

Lo studio dei tre ricercatori italiani insegue la spaventosa letalità dimostrata dal virus nel nord Italia, ma poggia solidamente sulle analisi condotte in occasione di altre infezioni da coronavirus, come la SARS (2002-2003) e il MERS (2012). In “Air pollution and case fatality of SARS in the People's Republic of China: an ecologic study”, pubblicato su Environmental Health nel 2003, un gruppo di studiosi cinesi ha dimostrato come i pazienti affetti da SARS appartenenti a regioni particolarmente inquinate hanno l’84% di probabilità in più di andare incontro alla morte rispetto ad abitanti di aree dove l’inquinamento atmosferico ha meno incidenza.

La Pianura Padana è la regione più inquinata del continente europeo, avvolta da una coltre di polveri sottili ben più spessa di quella presente a Wuhan, la metropoli di dieci milioni di abitanti dove il Covid-19 ha trovato diffusione primaria. In Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ha spiegato Caro, “vivono tantissime persone con malattie pregresse, anche respiratorie, dovute all'inquinamento. Noi sappiamo che i decessi legati al Covid-19 sono per lo più causati da gravissime polmoniti, la cosiddetta sindrome da distress respiratorio acuto, che sua volta è causata da un rilascio massivo di citochine infiammatorie. Dal punto di vista medico abbiamo notato che nelle popolazioni sottoposte ad alti livelli di inquinamento queste citochine infiammatorie sono persistentemente elevate, anche nei soggetti sani”.

Al terzetto italiano è bastato sovrapporre alcuni dati, come quelli sulla mortalità forniti dalla Protezione Civile, le analisi sulle condizioni di salute e delle malattie respiratorie e infine i numeri dell’Indice della Qualità dell’Aria elaborato dall’Agenzia Europea dell’Ambiente. A confermare l’intuizione di Conticini, Frediani e Caro è arrivato poi uno studio dell’Università di Harvard, al quale è stata garantita ampia diffusione, a partire da quotidiani come il New York Times e il Guardian. In “Exposure to air pollution and COVID-19 mortality in the United States”, viene dimostrato che un incremento di un microgrammo per metro cubo in Pm2.5 (polveri estremamente sottili), determina un aumento della letalità data dal Covid-19 del 15%. La lunga esposizione a condizioni dove la presenza di polveri sottili (le PM2.5 sono quelle capaci di scendere più in profondità nel sistema respiratorio) abbia subito un incremento, anche minimo, aumenta di venti volte il tasso di mortalità del coronavirus. Nelle conclusioni si ribadisce “l’importanza di continuare l’implementazione dei regolamenti relativi all’inquinamento atmosferico PM2.5 al fine di proteggere la salute umana durante e dopo la crisi del Covid-19”.

Sottolineatura necessaria in un paese dove il governo, sotto la pressione esercitata del comparto economico e finanziario, ha ceduto alle misure costrittive solo quando il virus ha preso a funestare New York, dove oggi si contempla la possibilità di creare fosse comuni nei parchi per ospitare i morti. Il neoliberismo della predazione non si arrende davanti all’evidenza scientifica, tenta i governanti con posizioni prescientifiche, medievali. Non è sufficiente la perfetta geometria del processo pandemico: il disboscamento mette a contatto gli uomini con virus altrimenti custoditi in altre specie, gli interessi politici ed economici impediscono o rallentano l’attuazione dei protocolli sanitari, il virus prolifera nelle regioni a più alta industrializzazione, dove movimento e guadagno prevalgono sulle responsabilità collettive, dove l’inquinamento dell’aria rende ancor più fragili i corpi, e più veloci e duraturi i percorsi di diffusione della malattia.

Leonardo Setti dell'Università di Bologna e Gianluigi e Gennaro dell'Università di Bari, entrambi appartenenti alla Società italiana di Medicina Ambientale (Sima), hanno insieme ad altri colleghi monitorato e incrociato i dati provenienti dalle centraline di rilevamento dell’ARPA (Agenzia regionale per la protezione ambientale) e quelli sul contagio forniti dalla Protezione Civile. Anche in questo caso la letteratura scientifica ha fornito le basi per una conclusione che lega organicamente inquinamento e contagio: come per altri tipi di polmonite, per il morbillo, esiste una forte relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 e PM2.5 e il numero di casi infetti da Covid-19. Il virus si lega in un processo di coagulazione alle polveri sottili, che diventano un efficientissimo trasportatore del morbo, aumentandone la persistenza e la capacità di coprire distanze ben più importanti dell’ormai canonico metro di sicurezza. “Più ci sono polveri sottili, più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni”, ha affermato De Gennaro.

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